La favola di Natale

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volpe 1

La mattinata era splendida, il “meet” fissato al quadrivio di Bolton Hill, nel Kildare. Il field era quello delle grandi occasioni. tra cavalli e ponies un centinaio di cavalieri era pronto per la Equitazione di campagna. Arrivarono i cani. Tutti dello stesso colore, con macchie bigie e rossastre sul mantello bianco. La muta era quella dei maschi, meno veloce ma più potente di quella delle femmine, meno fantasiosa ma più determinata. Larghe zampe, quelle anteriori un po’ più corte, fatte apposta per scorrazzare nel sottobosco, per Equitazione di campagnare nella macchia. Non troppo lunghe le orecchie, com’è giusto, cadenti ai due lati della fronte. Le reni larghe, le groppe potenti per aggredire le banchine, per scaraventarsi al di là dei fossi. Un flebile suono di tromba e ci mettemmo in moto aggirando una tozza chiesa in pietra grigia corrosa dagli acquazzoni.
Procedemmo al passo entrando in un campo arato di fresco. Gli zoccoli dei cavalli facevano scricchiolare nei solchi il sottile strato di ghiaccio, poiché quella notte aveva gelato.
In testa i cani procedevano in­quadrati, pieni di sangue e di vita, ancora distratti, sfac­cendati, ma improvvisamente seri quando tendevano il collo a fiutare il terreno aggrottando le sopraciglia, per poi al­zare la zampa contro un tronco o giocare con una foglia morta. Seguiva l’equipaggio, con il master al centro, ag­ghindato nelle giubbe lise.
I coats rossi splendevano contro il colore invernale del bosco. Lasciammo il campo entran­do in un sentiero nel quale ci venne incontro un signore del posto che indicò al master dove aveva visto la volpe. Dinnanzi a noi il terreno saliva dolcemente a formare una bassa collina coltivata a barbabietole. Il master chiamò a se il capo del field e gli diede le disposizioni che a sua volta ci comunicò a voce bassa. Un vento tenue sfilacciava nuvole incolori che marezzavano il cielo azzurro. Ci por­tammo al piccolo trotto in un boschetto, mentre quattro Equitazione di campagnatori partirono in canter raccolto salendo per la col­lina ai lati del grande campo di barbabietole. Quando le loro sagome si stagliarono sul basso crinale, noi li seguim­mo al trotto allargandoci ancora di più. Giunti a metà del­la salita ci fermammo. Il master in quel momento cacciò la muta nel campo.
I cani scomparvero tra le foglie. Una striscia verde si disegnò su per la collina ondeggiando.
Poi all’improvviso la muta prese a cantare. La Equitazione di campagna sta­va per cominciare. Dopo pochi minuti uno dei Equitazione di campagnatori che stava sulla collina all’estrema destra, togliendosi il cilindro annunciò il Tally-Ho. La volpe gli era passata a fianco e discendeva a rotta di collo l’altro versante. La giornata era iniziata bene. Ci buttammo al galoppo dietro ai cani scatenati. Le ore passavano.
Intanto la pri­ma volpe si era intanata, e così pure la seconda che la muta aveva scovato, ed il field s’era assottigliato. Erava­mo rimasti in pochi, infangati sui cavalli fumanti. I pule­dri in allenamento, i ragazzi sui ponies, le mamme che do­vevano preparare il cenone via via avevano abbandonato. La festa dell’indomani stava distraendo un po’ tutti. Qual­che folata di nebbia fredda incominciava ad incrociare. I cani erano sempre più irrequieti. Partimmo in cerca del­la terza volpe.
Stavo con Jack, il vecchio huntsman, ormai in pensione, che Equitazione di campagnava solamente un paio di volte per stagione. La sua giubba di panno pesante slavata da decenni di piova­schi era del colore dei melograni secchi. Il naso adunco venato di violetto gli usciva dal volto come un rostro. Gli occhi leggermente incrociati. Le fedine grigie gli incorni­ciavano il volto scuro. Si esprimeva in uno strano miscu­glio di gaelico ed inglese. Trottavo al suo fianco in fondo al gruppo.
Scendemmo in una larga conca paludosa quan­do incontrammo un robusto double bank: fosso, banchina, fosso. I cavalli lo volarono di rimessa in due tempi. I cani lavoravano, naso al terreno, dinnanzi a noi. Incomincia­vano però a dar segni di stanchezza. Intanto si era alzato un vento che s’infiltrava per le ossa. Alla nostra destra era apparso ad un centinaio di metri un piccolo villaggio. Proprio quattro case. Jack mi propose una sosta al pub per un goccio di brandy.
Rimontati in sella, tornammo sui nostri passi. Naso all’aria, il vecchio huntsman in un attimo riprese il senso della Equitazione di campagna e mi propose di ta­gliare per la collina per raggiungere il field che la stava aggirando per la parte bassa. Partimmo al galoppo per un sentiero tra due muretti in pietra secca. Improvvisamente una volpe grandissima ci sgusciò d’innanzi.
Jack urlando non so cosa si buttò all’inseguimento ed io dietro, pancia a terra .La volpe manteneva una ventina di metri di van­taggio, poi all’improvviso allungò e la perdemmo di vista.
La nostra corsa finì nel giardinetto di una casa quasi in cima alla collina. Una vecchietta sulla soglia, avvolta in una palandrana di lana mortaccina, nella morsa dello stu­pore e della paura, ci indicò la porta spalancata della casa. « Yes, yes.’.. there, there… ».
In quel momento dalla valle ci giunse il canto dei cani ormai lontani.
Balzammo da cavallo ed entrammo di corsa in casa. Un grande salone, una piccola cucina ed un bagno, occupa­vano l’intero piano terra. Intorno il giardino in dimessa veste invernale, viveva con l’ambiente attraverso grandi vetrate. Le porte del bagno e della cucina erano chiuse. Una scala di legno portava al piano superiore. Una guida in canapa bordeaux fermata da liste in ottone sidolato si inerpicava per gli scalini. Ci fermammo un attimo all’in­gresso. Jack, portando l’indice parallelo al naso, mi fece segno di non far rumore. Avanzammo in punta di stivali sui tappeti, gimkanando tra divani, poltrone, abatjours, at­tendendo il balzo della volpe accucciata in qualche canto. Il fiato sospeso. Nulla. Ci fermammo ai piedi della scala. Jack mi indicò con gli occhi che la volpe era salita. Sa­limmo lentamente anche noi. La scala scrocchiava sotto il nostro peso. Le porte delle camere da letto davano su di un ballatoio. Una sola era socchiusa.
Avanzammo cauti.
Jack fermò la mia curiosità, trattenendomi con il braccio. Sospinse lentamente la porta socchiusa, che cigolò girando sui cardini.
La volpe stava accovacciata nel centro del grosso letto, affondata nel copriletto di ciniglia colar salvia. Ci stava aspettando. Come ci vide, digrignò i denti allungando il muso verso di noi poi subito si ricompose arrotolandosi nella stupen­da coda. Jack, turbato mi trascinò via per un braccio. Tornammo ai cavalli. Scambiò appena qualche parola con la vecchietta— che non compresi ed in quel momento la volpe abbandonò la casa sotto i nostri occhi per un boschetto di frassini.
Rientrammo al passo, mentre la sera incominciava a calare. Jack ancora turbato era assorto nei suoi pensieri. Camminammo a lungo in silenzio scaldandoci le mani sul collo del cavallo.
Improvvisamente mi disse: « Volpe in casa, o grande di­sgrazia o grande fortuna ». Non mi rivolse più la parola sino al canile.
Era ormai notte. L’amico Filippini, che era rientrato con il gruppo, mi attendeva intirizzito.
Eravamo ospiti a cena dai Carrew a Donadeahouse. Nel salone, tutto un albero di Natale, il pranzo era terminato. Arrivò il Porto in tavola e le signore ci lasciarono. Il vec­chio Lord sorseggiando Campari liscio ed a temperatura ambiente, ci raccontava, tra i colpi di tosse, le sue av­venture di Equitazione di campagna. Ad un tratto la porta del salone si spa­lancò. Apparve Lady Carrew con un grande sorriso e ci annunciò che Mrs. Dermot aveva vinto i milioni della lotteria di Natale.
Mrs. Dermot era la vecchietta alla quale era entrata la volpe in casa.
Domani il vecchio Jack avrebbe tirato sicuramente un sospiro di sollievo.
Mauro Beta

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